Da L’Unione Sarda 11 agosto 2006
All’Asinara sulle tracce dell’esercito dei dannati
Reportage di Carlo Figari
Asinara. Una mandria di cinghiali affettuosi come cagnolini accoglie i turisti appena sbarcati dal traghetto al molo di Fornelli, la porta meridionale dell’Asinara alle 10, sotto il sole d’agosto,arrivano le barche a vela e i gommoni dei charter In pochi minuti l’imbarcadero si affolla di gitanti che prendono d’assalto il chiosco delle bibite e si scatenano con le prime foto ai cinghialetti e al mare la favola. Di fronte si notano subito i muri dell’ex supercarcere che ospitò i boss mafiosi negli anni Novanta. Le giovani guide faticano a raccogliere i gruppi, finalmente si parte per visitare l’isola degli asinelli, nel secolo scorso Cayenna d’Italia, oggi parco naturale con grandi speranze turistiche. I gruppi se ne vanno alla ricerca delle spiagge lasciandosi dietro il forte prigione ormai chiuso e abbandonato dal Ministero. Proprio qui, su questo molo ora silenzioso e deserto, novant’anni fa vennero sbarcati i primi soldati austro-ungarici colpiti dal colera di un esercito di prigionieri ridotti alla stremo dalla fame e dalle malattie. Erano 25-30 mila, almeno ottomila morirono di colera e tifo nell’isola. I superstiti dopo sei mesi vennero trasferiti in Francia. Una storia dai risvolti terrificanti, forse per questo dimenticata. I turisti tirano dritto. A nessuno interessano i ruderi di un campo di prigionia quando hanno davanti uno dei panorami più belli del Mediterraneo. Sulle guide poche righe, nei libri di storia neppure un accenno. Ne parlano una tesi di laurea del 1947, qualche articolo di giornale e un paio di saggi. Tutti citano la stessa fonte: la relazione del generale Giuseppe Carmine Ferrari, all’epoca comandante del presidio dell’Asinara. Un volume del 1929, ingiallito e quasi introvabile. «I documenti sulla vicenda custoditi nell’archivio dell’Esercito a Roma sarebbero spariti», afferma il ricercatore cagliaritano Alberto Monteverde esperto della Prima guerra mondiale e della Brigata Sassari, cercava gli originali della relazione del generale. «Ho trovato le cartelle, ma erano vuote. Nessuno ha saputo dirmi dove siano finiti». C’è anche una contro storia scritta nei 1961 dal capitano Giuseppe Agnelli di Lodi: ufficiale di commissariato fu testimone diretto. Dalle sue pagine esce un quadro infernale delle condizioni del campo con i soldati che vivevano in condizioni inumane, spesso bastonati e lasciati morire per le malattie. Ma questa versione, che contrasta con le fonti sinora note e sull’immagine di un generoso impegno italiano per salvare quella massa di disgraziati è ancora tutta da verificare.
La storia comincia il 18 dicembre del 1915, giornata che si può immaginare ben diversa dai 32 gradi, di oggi. Il freddo e il maestrale d’inverno qui sono padroni assoluti. Nella rada davanti a Cala Reale gettarono la fonda i piroscafi Dante Alighieri e America con cinquemila prigionieri. Dalle navi, con i barconi a remi, iniziò il lento e faticoso traghettamento di quei disperati che di uomini avevano solo le sembianze. Era solo la prima ondata di migliaia di soldati che da lì ai primi di gennaio si riverseranno sull’Asinara, col più grande ponte navale nella storia della Marina italiana. Erano i superstiti della “marcia della morte”, un esercito sconfitto dai serbi sul fronte austriaco e deportato lungo i Balcani. Settantamila partirono da Nich, in 30 mila giunsero al porto di Valona, in Albania, dopo aver camminato senza cibo tra la neve per 77 giorni.. Per loro, affamati, stremati dalle malattie e dalle botte, coperti di stracci e divise a brandelli, la salvezza si chiamava Italia. .Quando sbarcarono a Cala Reale non sapevano neppure di essere arrivati all’Asinara, isola sperduta al nord della Sardegna, ma almeno c’era la speranza di sopravvivere. Nel giro di un paio di settimane il ponte navale si completò e l’Asinara, sino a quel giorno popolata solo da un migliaio di prigionieri catturati nell’agosto precedente e da 350 militari italiani, si ritrovò affollata da trentamila superstiti di un’ armata multietnica e multilingue. Ungheresi, austriaci, boemi, croati, c’era rappresentato tutto l’impero asburgico allo sbando. Un caos indescrivibile,mentre dalle navi sbarcavano i colerosi. «Nei primi giorni morivano a centinaia - racconta Alberto Monteverde: - venivano gettati in mare terrorizzando i pescatori di Stintino e Porto Torres. Nella terraferma giravano voci che agghiacciavano la popolazione e così il prefetto di Sassari ordinò all’Esercito di fermare subito le operazioni. Mentre si annunciava l’arrivo di altre navi cariche di disperati, il generale Giuseppe Carmine Ferrari, comandante del presidio dell’Asinara, organizzò nell’isola un piano di accoglienza mai visto all’epoca e che anche oggi, con i mezzi e la tecnologia moderna, sarebbe difficile realizzare in tempi così rapidi». E tutto riportato minuziosamente nella relazione del generale Ferrari. «Nell’isola - sottolinea la storica Carla Ferrante dell’Archivio di Stato - si trovavano già da tempo una piccola stazione contumaciale per i malati, un ospedale con trenta letti, una foresteria con uffici e magazzini, una direzione sanitaria, quattro baracche, alcuni fabbricati e un forno crematorio. Ma certo non era preparata ad accogliere migliaia di prigionieri in gran parte colpiti da colera e gravissime malattie. Mancava tutto: acqua, luce, scorte alimentari e medicine». Ferrari e i suoi uomini realizzarono in un paio di settimane sei campi: a Fornelli per accogliere i colerosi, Cala Reale, Cala d’Oliva, Stretti, Campo Perdu e infine a Tumbarino. Seguendo le mappe del generale Ferrari è possibile vedere i resti di ciascun campo, nell’itinerario non previsto dai tour organizzati sembra di rivedere la massa di quei dannati aggirarsi tra le tende. Qui a Fornelli i morti di colera furono sepolti a migliaia nelle fosse comuni in riva al mare.
La mattina dei 18 dicembre 1915 i primi .prigionieri dell’esercito austro-ungarico sbarcarono all’Asinara al molo di Cala Reale. «Alcuni erano nudi, altri coperti di indumenti stracciati, altri con panni dati dai marinai di bordo, la maggior parte scalzi. Erano molto depressi, di più erano affamati cosicché si racconta che quando qualcuno mangiava il pane, i compagni raccoglievano le briciole. Si racconta che molti cercavano il nutrimento tra le immondizie e quando un compagno era morto lo lasciavano là vicino per prendersi la sua razione. Appena uno di loro manifestava i sintomi del colera, veniva spogliato delle poche cose». Sono le parole del generale Pietro Marini, comandante del Corpo d’armata di Roma e responsabile in capo dell’operazione di salvataggio dei trentamila prigionieri austro-ungarici che la Serbia aveva passato agli alleati italiani. Con un’imponente ponte navale, soprattutto per l’epoca, la Marina italiana con venti viaggi e una decina di unità. trasportò da Valona alla Sardegna i superstiti della marcia della morte. Da 70 mila si erano ridotti a meno della metà e molti durante il viaggio erano rimasti colpiti dal colera.
L'arrivo. «All’Asinara si era venuti a conoscenza di questa gigantesca operazione» racconta Pierpaolo Congiatu: «proprio mentre arrivavano i primi piroscafi con cinquemila uomini, affamati e malati, non solo di. colera ma di ogni malattia che quei fisici ridotti a scheletri avevano contratto durante i due mesi della marcia tra i monti coperti di neve dei Balcani. l’isola non era preparata ad accogliere una massa cosi imponente, eppure a tempo di record fu trasformata in un gigantesco accampamento». Pierpaolo Congiatu, ingegnere e responsabile dei servizi tecnici del nuovo parco dell’Asinara, da anni si interessa con passione della Storia della Cayenna d’Italia. Documenti, fotografie, memorie, ma anche - grazie. alla sua specializzazione tecnica cerca di ritrovare le tracce sul terreno degli eventi che si sono succeduti dal 1885 ai primi anni Novanta. Per un secolo la stupenda isola degli asinelli ha ospitato prigionieri di ogni nazionalità e genere: dagli anarchici dell’Ottocento ai boss mafiosi rinchiusi nel supercarcere di Fornelli. Tra il dicembre del 1915 e il luglio del 1916 accolse tra 25 e trentamila prigionieri dell’armata austro-ungarica sconfitta dai serbi sul fronte dei Balcani e consegnati all’Italia durante la ritirata da Nisch a Valona.
Dimenticati. Una pagina quasi sconosciuta e ormai dimenticata. Ma non da Congiatu che con le mappe del tempo e i pochi documenti disponibili tenta faticosamente di ricostruire. E’ un itinerario, da Fornelli a Cala d’Oliva sull’altro capo dell’isola, che tocca i sei campi realizzati per accogliere quella torma di disperati. «Certo, i turisti che arrivano ogni giorno a centinaia non si fermano qui per ascoltare una storia lontana e per loro probabilmente poco interessante.. Ma per noi è importante recuperare ogni tassello di questa vicenda che ha visto l’Italia, appena entrata nella Prima guerra mondiale, compiere uno sforzo gigantesco per salvare la vita a migliaia di soldati che morivano ogni giorno di fame e di colera. Fu una missione umanitaria eccezionale per l’epoca, se si pensa all’impegno bellico che si stava affrontando sul fronte alpino»
Museo. Obiettivo di Congiatu, che trova d’accordo il nuovo direttore del parco Carlo Forteleoni di aprire nei locali restaurati del Palazzo dell’amministrazione un piccolo museo della storia dell’Asinara . «Una sala sarà dedicata interamente a questa tragica vicenda con i reperti che stiamo raccogliendo - dice - lapidi, epigrafi, statue, e sculture fatte dai prigionieri, pochissimi oggetti ritrovati a cui si potranno aggiungere foto, filmati e video per illustrare quegli otto mesi in cui l’isola si trasformò in un’autentica Babele. Arrivarono uomini dell’esercito austro-ungarico provenienti dall’impero asburgico in disfacimento: con austriaci e ungheresi migliaia di croati, boemi, slovacchi, rumeni, russi e bulgari». Non è un caso che l’ingegnere col gusto della storia si occupi di tutto questo. «Sono di Porto Torres - spiega - e sin da bambino restavo affascinato dalle storie che i grandi raccontavano. L’Asinara era una sorta di isola mitica, popolata da animali esotici, pesci rari, dove potevano accadere i fatti più fantastici. E tutti ci credevano. In più mia madre è stata per diversi anni maestra nell’isola e grazie anche a lei ho cominciato ad appassionarmi». Quando si è affacciata l’opportunità di un lavoro nel nascente parco nazionale è stato quasi naturale occuparsi di quei racconti che sentivo da bambino dalle favole alla storia
Il diario. Esiste un raro documento che ricostruisce passo passo con militare pignoleria la tragedia di 90 anni fa. E’ il diario del generale Giuseppe Carmine Ferrari, all’epoca comandante del Presidio dell’Asinara. «Fu lui ad organizzare le operazioni di accoglienza e a tempo di record. Dalle sue pagine. emerge la cronaca quotidiana degli arrivi, dei decessi, delle enormi difficoltà per curare i colerosi, per assistere i moribondi, ma soprattutto per dare vestiti, cibo, coperte e almeno una tenda a quelle. migliaia di disperati che continuavano a sbarcare come un fiume inarrestabile»,dice Congiatu. Per far fronte all’emergenza ci fu una vera mobilitazione: medici e personale sanitario furono inviati da Cagliari e Sassari, ingenti quantità di farina, riso e viveri nonostante la penuria dell’economia. di guerra dai magazzini di Porto Torres. Per vestire quella massa di soldati seminudi e scalzi spedirono berretti, giubbe, scarpe e pezze da piedi, ma anche il necessario per l’accampamento tende, stuoie, coperte, paglia, gavette, forni, attrezzi da lavoro e persino strumenti musicali. Dopo otto mesi i quindicimila superstiti, in gran parte. ristabilitisi saranno imbarcati su tre navi e trasportati a Tolone per essere consegnati all’esercito francese. Nell’agosto del 1916 l’Asinara era di nuovo deserta, i campi con gli ospedali, le tende e le baracche, smontati o abbandonati. Cosa è rimasto oggi?
Fornelli. «Qui a Fornelli - riprende il filo Congiatu - furono subito portati i malati di colera». A mezzo chilometro dal molo dove oggi approdano i traghetti con i turisti, sono ancora in piedi i ruderi del cimitero con al centro una misteriosa cappella. Quando e da chi fu costruita? Nessuno ha saputo dare una spiegazione. Sicuramente dai prigionieri, ma l’architettura lascia stupiti. «Aveva una cupola come una piccola moschea, le finestre sono moresche, ma l’interno con capitelli e muri dipinti sono di stile diverso», dice l’ingegnere: «Nella sagrestia si nota un lastrone di marmo. Non è un altare. ma il tavolo per le necroscopie: si notano i fori per far scolare il sangue». All’interno del recinto sono state trovate centinaia di tombe, le ossa raccolte e portate all’ossario dei caduti costruito negli anni Trenta davanti a Campu Perdu. «Ma ce ne sono tante altre. Anche in riva, dove i cadaveri dei colerosi venivano sepolti nelle fosse comuni. Per anni il mare ha scavato le tombe scoprendo gli scheletri». Il diario del generale Ferrari annota puntigliosamente i morti del giorno: a centinaia in dicembre e gennaio, poi si riducono a 20, 30 a febbraio, ad aprile il colera è sconfitto. Il virus era esploso a bordo delle navi, probabilmente contratto durante la terribile marcia nei Balcani. I primi cadaveri vennero gettati in mare e i malati lasciati a bordo, nel frattempo che a terra si costruivano gli ospedali e le fosse. Poi si isolarono nel campo di Fornelli. Dopo gli arrivi di dicembre, le navi continuarono senza sosta il ponte con l’Albania. I prigionieri giungevano a ondate di migliaia. Nell’isola mancava tutto, ma Ferrari, riuscì ad ottenere il necessario. «Pensate solo all’acqua per dissetare tanta gente» dice l’ingegnere «Furono scavati pozzi e costruiti serbatoi vicino ai moli dove potevano approdare le navi cisterna. I primi cinquemila vennero accolti a Cala Reale dove già esistevano alcune strutture ospedaliere e baracche, poi vennero realizzati i campi a Cala d’Oliva, Stretti, Campu Perdu, a Fornelli per i colerosi e infine a Tumbarino. Ovunque si notano oggi ruderi degli ospedali i forni crematori, i basamenti di pietra su cui erano montate le tende, i cippi funerari ». Il più desolato è il cimitero degli italiani militari e civili morti tra le due guerre, sepolti anche bambini di un anno, croci di legno abbattute, lapidi frantumate, il muro cadente. Il generale tenne una contabilità quotidiana, ma era impossibile conoscere il numero esatto degli sbarcati di quelli che morivano nell’indifferenza degli stessi compagni. Verso febbraio la vita nei campi cominciò a normalizzarsi, i prigionieri curati e sfamati come possibile con gallette, carne in scatola e minestre, poterono lentamente ristabilirsi. Molti cominciarono a lavorare come contadini, artigiani, scalpellini, giardinieri. Tra loro c’erano numerosi artisti che costruirono cappelle, monumenti funebri e statue. In un’iscrizione a Tumbarino si legge ancora: «Grazie all’Italia nostra salvatrice». Quando l’ultimo convoglio si apprestava a salpare verso la Francia, da bordo della nave Seine, i 1200 prigionieri si tolsero i berretti e salutarono gridando più volte «Viva l’Italia ».
L'Asinara. L’epigrafe dedicata al generale Ferrari non si può vedere. Devastata dal tempo e ritrovata in mezzo agli arbusti ora è custodita in un magazzino in attesa di un restauro e di una collocazione. L’avevano scritta i prigionieri austriaci per ringraziare il comandante dell’Asinara poco prima di lasciare l’isola per essere trasferiti in Francia. Nell’inverno del 1916 il paradiso dei turisti di oggi era diventato nel volgere di un paio di settimane, un girone dantesco. Un vero inferno in cui si ritrovarono reclusi per otto mesi trentamila prigionieri dell’esercito austro-ungarico. C’è un documento, praticamente sconosciuto di un ufficiale di Lodi che fu testimone di quella tragedia. Nel racconto lasciato dal capitano di Commissariato Giuseppe Agnelli emerge un quadro ben diverso da quello descritto dal generale Giuseppe Carmine Ferrari. Agnelli fu inviato all’Asinara per contribuire alla missione di soccorso. La sua testimonianza, pubblicata nel 1919 sul giornale socialista l’Avanti! subito dopo la fine della guerra, fu criticata e poi censurata perchè ribaltava l’immagine positiva degli italiani che avevano sconfitto il colera e salvato migliaia di uomini. Agnelli ormai anziano, ci riprovò nel 1961 con un saggio di memorie ritrovato da uno studioso trentino. Il suo racconto è terrificante: i militari italiani furono spietati lo stesso Ferrari diceva «senza reticenze che il bastone era il vocabolario col quale dovevasi discorrere con i prigionieri». Arrivarono qui a ondate da Valona, con un gigantesco ponte navale messo in atto dalla Marina militare italiana. Affamati, ridotti a scheletri, seminudi e scalzi, la maggior parte stremata da ogni genere di malattie. A centinaia colpiti dal colera morivano sulle navi prima ancora di essere sbarcati, gli altri finirono. nel campo-lazzaretto che fu costruito in pochi giorni nell’area di Fornelli, tra la riva e il supercarcere dove sino agli anni Novanta furono rinchiusi i boss mafiosi e i terroristi.
Missione umanitaria. La prima nave, guarda caso si chiamava Dante Alighieri, spuntò davanti alla rada di Cala Reale il 18 dicembre 1915. Nel giro di pochi giorni sbarcò una marea umana sull’isola sino a quel momento praticamente deserta. Secondo il minuzioso diario del generale Carmine Giuseppe Ferrari, che organizzò l’accoglienza, la costruzione di otto campi con tende e ospedali il trasporto di viveri, medicine e di ogni necessità, fu possibile salvare quindicimila di quei 25-30 mila disperati. A leggere le pagine della sua relazione fu un’impresa umanitaria eccezionale per quei tempi, che sarebbe stata difficile realizzare anche oggi. A testimonianza i ringraziamenti dei superstiti poco prima di partire per la Francia e alcuni monumenti lasciati nell’Asinara.
Monumenti. A Campu Perdu c’era una statua celebrativa scolpita dal prigioniero ungherese Georg Vemess, un’autentica opera d’arte. Spuntava tra la macchia mediterranea sino a una decina di anni fa poi nel passaggio dall’amministrazione penitenziaria all’Ente parco sembra scomparsa. Rappresentava (si vede in una vecchia foto) un eroe e nel basamento una folla di uomini nudi e disperati. «Questa statua era intitolata “Il lungo viaggio”» racconta il professor Laszlo Lorinczi, ungherese studioso da tempo trapiantato in Sardegna: «Da, un lato l'artista voleva rivelare al mondo le atroci sofferenze che i suoi connazionali avevano subito durante la terribile marcia nei Balcani, dall’altra il trionfo della speranza, della solidarietà dei popoli e della vita. Insomma, un ringraziamento agli italiani che avevano salvato e curato i sopravvissuti dei 70 mila che avevano marciato per due mesi da Nisch a Valona». L’anziano professore ha un sogno: «Non so che fine abbia fatto quella statua, ma vorrei che venisse realizzato un nuovo monumento a forma di stele con i simboli della nostra nazione per ricordare gli otto, novemila ungheresi morti all’Asinara».
I campi. La strada di cemento che da Fornelli porta a Cala Reale si snoda tra un paesaggio da sogno nel parco nazionale. Novant’anni fa per otto mesi l’Asinara si ritrovò sommersa da questi trentamila prigionieri (impossibile stabilire la cifra esatta). Sulla collina di Stretti, dove furono sistemati due campi, cresce ancora la cipolla canina. E’ una sorta di peyote sardo: dicono che in piccole dosi dia euforia, ma basta mangiarne un paio per morire tra atroci dolori. «Quei poveretti, vinti dalla fame, cercavano ogni cosa commestibile: molti, che avevano raccolto le cipolle velenose, morirono su questa collina» ricorda Pierpaolo Congiatu, studioso delle storia dell’Asinara. Congiatu mostra i ruderi di Tumbarino: si notano bene i circoli di pietra su cui venivano montate le tende, i muri dove c’era l’ospedale, il molo dove approdavano i barconi e vicino alla riva anche il serbatoio per raccogliere l’acqua che veniva scaricata dalle navi-cisterna (nell’isola non c’erano pozzi e l’approvvigionamento era uno dei problemi prioritari). Qui a Tumbarino negli anni del supercarcere isolavano i pedofili e i detenuti pericolosi. Da lontano nel silenzio si sentivano le loro urla. I prigionieri austriaci, superata l’emergenza colera, vestiti e alimentati come possibile, dal marzo in poi cominciarono a ristabilirsi. Molti lavoravano nei campi e con il bestiame, altri facevano gli operai e gli artigiani, a centinaia furono inviati in Sardegna per occupare i vuoti lasciati dagli uomini partiti per il fronte. Tracce del loro passaggio a Ussana, lglesias, Sinnai, nelle miniere di Montevecchio e del Sulcis.
Artisti. In quella Babele di lingue e culture c’erano numerosi musicisti e artisti. Hanno costruito cimiteri, cappelle, monumenti funebri. A Tumbarino, girando tra i ruderi dell’ex campo, si scopre il basamento scolpito con un impressionante bassorilievo. La statua è scomparsa, anche questa, ma la scultura mostra le figurine di quei disperati. Ma chi erano i prigionieri?
Cannibalismo. Racconta il capitano Agnelli: «Rappresentavano l’avanzo di ben 70 mila uomini dell’esercito austro-ungarico che nel 1914, all’inizio della guerra contro la Serbia, erano stati catturati. Nell’autunno del 1915 in seguito all’offensiva del formidabile esercito tedesco, i serbi furono costretti alla ritirata trascinandosi dietro la massa dei prigionieri austriaci. Fu una vera odissea a piedi tra i monti innevati dei Balcani. Per settanta giorni vagarono senza un piano preciso, morendo a migliaia di stenti e percosse». «Ci furono persino casi di cannibalismo», racconta in una lettera uno dei superstiti. «Siffatto era il terrore che dominava la famelica turba fuggente e così forte era l'istinto di sopravvivenza che neppure amici e parenti si fermavano a soccorrere chi si lasciava andare sfinito. Si nutrirono di erbacce, topi, ogni qualità di rettili abbruciacchiati e divorati con voracità felina» scrisse con il linguaggio dell’epoca il capitano Agnelli raccogliendo - sostiene -le testimonianze dei sopravvissuti.
Colera. In gran parte in preda alla dissenteria e ridotti a pelle e ossa arrivarono a Valona in trentamila. Nel porto albanese scoppiò il colera. I prigionieri dovevano essere consegnati alla Francia, ma la notizia dell’epidemia consigliò i governi alleati di frenare il contagio chiedendo aiuto all’Italia. Così si decise di trasportarli all’Asinara considerata il Lazzaretto del Mediterraneo. Durante il tragitto in nave continuavano a morire tra atroci dolori. I cadaveri venivano gettati a centinaia in mare, qualcuno fu rinvenuto sulla costa di Alghero o finì nelle reti dei pescatori sardi. L’Asinara era praticamente deserta e mancava di tutto. Agnelli ricorderà per tutta la vita il maestrale che soffiava senza tregua impedendo alle navi di portare viveri e soccorsi. In queste condizioni per la completa assenza di cure, anche rudimentali le vittime furono centinaia al giorno «Sì che, non appena furono assestati in maniera soddisfacente i campi» sottolinea il capitano «i prigionieri si erano ridotti a ventimila» I cadaveri venivano sepolti nelle fosse comuni e accatastati vicino alla spiaggia in attesa dell’inumazione. Unico cibo gallette e scatole di carne, solo dopo un mese si vide la carne fresca e il brodo, il pane, che si preparava a Porto Torres, quando c’era maestrale finiva ad ammuffire nei magazzini. I medici italiani lasciarono ai loro colleghi austriaci il compito di assistere i colerosi,mancavano le medicine per le cure usavano limoni e aranci. Ai Fornelli non si faceva in tempo a scavare le fosse comuni. I prigionieri si impossessavano dei vestiti dei morti e preferivano tenersi vicini per giorni i cadaveri pur di prendere la loro razioni. «Non c’era niente, in compenso abbondava il bastone. I carabinieri sorvegliavano coi randello in mano e a ogni minima infrazione alla disciplina erano legnate sulla testa e sulle spalle». Agnelli vide «infinite scene di bestiale violenza e ufficialetti troppo ligi che per dimostrare la loro energia facevano legare al palo i disgraziati colpevoli di voler saziare la loro fame». Solo il ritrovamento di altri documenti e futuri studi potranno stabilire come andarono gli eventi. Oggi restano i ruderi di una storia dimenticata.
Da L'Unione Sarda 11 Agosto 2006
All’Asinara sulle tracce dell’esercito dei dannati
Reportage di Carlo Figari
Asinara. Una mandria di cinghiali affettuosi come cagnolini accoglie i turisti appena sbarcati dal traghetto al molo di Fornelli, la porta meridionale dell’Asinara alle 10, sotto il sole d’agosto,arrivano le barche a vela e i gommoni dei charter In pochi minuti l’imbarcadero si affolla di gitanti che prendono d’assalto il chiosco delle bibite e si scatenano con le prime foto ai cinghialetti e al mare la favola. Di fronte si notano subito i muri dell’ex supercarcere che ospitò i boss mafiosi negli anni Novanta. Le giovani guide faticano a raccogliere i gruppi, finalmente si parte per visitare l’isola degli asinelli, nel secolo scorso Cayenna d’Italia, oggi parco naturale con grandi speranze turistiche. I gruppi se ne vanno alla ricerca delle spiagge lasciandosi dietro il forte prigione ormai chiuso e abbandonato dal Ministero. Proprio qui, su questo molo ora silenzioso e deserto, novant’anni fa vennero sbarcati i primi soldati austro-ungarici colpiti dal colera di un esercito di prigionieri ridotti alla stremo dalla fame e dalle malattie. Erano 25-30 mila, almeno ottomila morirono di colera e tifo nell’isola. I superstiti dopo sei mesi vennero trasferiti in Francia. Una storia dai risvolti terrificanti, forse per questo dimenticata. I turisti tirano dritto. A nessuno interessano i ruderi di un campo di prigionia quando hanno davanti uno dei panorami più belli del Mediterraneo. Sulle guide poche righe, nei libri di storia neppure un accenno. Ne parlano una tesi di laurea del 1947, qualche articolo di giornale e un paio di saggi. Tutti citano la stessa fonte: la relazione del generale Giuseppe Carmine Ferrari, all’epoca comandante del presidio dell’Asinara. Un volume del 1929, ingiallito e quasi introvabile. «I documenti sulla vicenda custoditi nell’archivio dell’Esercito a Roma sarebbero spariti», afferma il ricercatore cagliaritano Alberto Monteverde esperto della Prima guerra mondiale e della Brigata Sassari, cercava gli originali della relazione del generale. «Ho trovato le cartelle, ma erano vuote. Nessuno ha saputo dirmi dove siano finiti». C’è anche una contro storia scritta nei 1961 dal capitano Giuseppe Agnelli di Lodi: ufficiale di commissariato fu testimone diretto. Dalle sue pagine esce un quadro infernale delle condizioni del campo con i soldati che vivevano in condizioni inumane, spesso bastonati e lasciati morire per le malattie. Ma questa versione, che contrasta con le fonti sinora note e sull’immagine di un generoso impegno italiano per salvare quella massa di disgraziati è ancora tutta da verificare.
La storia comincia il 18 dicembre del 1915, giornata che si può immaginare ben diversa dai 32 gradi, di oggi. Il freddo e il maestrale d’inverno qui sono padroni assoluti. Nella rada davanti a Cala Reale gettarono la fonda i piroscafi Dante Alighieri e America con cinquemila prigionieri. Dalle navi, con i barconi a remi, iniziò il lento e faticoso traghettamento di quei disperati che di uomini avevano solo le sembianze. Era solo la prima ondata di migliaia di soldati che da lì ai primi di gennaio si riverseranno sull’Asinara, col più grande ponte navale nella storia della Marina italiana. Erano i superstiti della “marcia della morte”, un esercito sconfitto dai serbi sul fronte austriaco e deportato lungo i Balcani. Settantamila partirono da Nich, in 30 mila giunsero al porto di Valona, in Albania, dopo aver camminato senza cibo tra la neve per 77 giorni.. Per loro, affamati, stremati dalle malattie e dalle botte, coperti di stracci e divise a brandelli, la salvezza si chiamava Italia. .Quando sbarcarono a Cala Reale non sapevano neppure di essere arrivati all’Asinara, isola sperduta al nord della Sardegna, ma almeno c’era la speranza di sopravvivere. Nel giro di un paio di settimane il ponte navale si completò e l’Asinara, sino a quel giorno popolata solo da un migliaio di prigionieri catturati nell’agosto precedente e da 350 militari italiani, si ritrovò affollata da trentamila superstiti di un’ armata multietnica e multilingue. Ungheresi, austriaci, boemi, croati, c’era rappresentato tutto l’impero asburgico allo sbando. Un caos indescrivibile,mentre dalle navi sbarcavano i colerosi. «Nei primi giorni morivano a centinaia - racconta Alberto Monteverde: - venivano gettati in mare terrorizzando i pescatori di Stintino e Porto Torres. Nella terraferma giravano voci che agghiacciavano la popolazione e così il prefetto di Sassari ordinò all’Esercito di fermare subito le operazioni. Mentre si annunciava l’arrivo di altre navi cariche di disperati, il generale Giuseppe Carmine Ferrari, comandante del presidio dell’Asinara, organizzò nell’isola un piano di accoglienza mai visto all’epoca e che anche oggi, con i mezzi e la tecnologia moderna, sarebbe difficile realizzare in tempi così rapidi». E tutto riportato minuziosamente nella relazione del generale Ferrari. «Nell’isola - sottolinea la storica Carla Ferrante dell’Archivio di Stato - si trovavano già da tempo una piccola stazione contumaciale per i malati, un ospedale con trenta letti, una foresteria con uffici e magazzini, una direzione sanitaria, quattro baracche, alcuni fabbricati e un forno crematorio. Ma certo non era preparata ad accogliere migliaia di prigionieri in gran parte colpiti da colera e gravissime malattie. Mancava tutto: acqua, luce, scorte alimentari e medicine». Ferrari e i suoi uomini realizzarono in un paio di settimane sei campi: a Fornelli per accogliere i colerosi, Cala Reale, Cala d’Oliva, Stretti, Campo Perdu e infine a Tumbarino. Seguendo le mappe del generale Ferrari è possibile vedere i resti di ciascun campo, nell’itinerario non previsto dai tour organizzati sembra di rivedere la massa di quei dannati aggirarsi tra le tende. Qui a Fornelli i morti di colera furono sepolti a migliaia nelle fosse comuni in riva al mare.
La mattina dei 18 dicembre 1915 i primi .prigionieri dell’esercito austro-ungarico sbarcarono all’Asinara al molo di Cala Reale. «Alcuni erano nudi, altri coperti di indumenti stracciati, altri con panni dati dai marinai di bordo, la maggior parte scalzi. Erano molto depressi, di più erano affamati cosicché si racconta che quando qualcuno mangiava il pane, i compagni raccoglievano le briciole. Si racconta che molti cercavano il nutrimento tra le immondizie e quando un compagno era morto lo lasciavano là vicino per prendersi la sua razione. Appena uno di loro manifestava i sintomi del colera, veniva spogliato delle poche cose». Sono le parole del generale Pietro Marini, comandante del Corpo d’armata di Roma e responsabile in capo dell’operazione di salvataggio dei trentamila prigionieri austro-ungarici che la Serbia aveva passato agli alleati italiani. Con un’imponente ponte navale, soprattutto per l’epoca, la Marina italiana con venti viaggi e una decina di unità. trasportò da Valona alla Sardegna i superstiti della marcia della morte. Da 70 mila si erano ridotti a meno della metà e molti durante il viaggio erano rimasti colpiti dal colera.
L'arrivo. «All’Asinara si era venuti a conoscenza di questa gigantesca operazione» racconta Pierpaolo Congiatu: «proprio mentre arrivavano i primi piroscafi con cinquemila uomini, affamati e malati, non solo di. colera ma di ogni malattia che quei fisici ridotti a scheletri avevano contratto durante i due mesi della marcia tra i monti coperti di neve dei Balcani. l’isola non era preparata ad accogliere una massa cosi imponente, eppure a tempo di record fu trasformata in un gigantesco accampamento». Pierpaolo Congiatu, ingegnere e responsabile dei servizi tecnici del nuovo parco dell’Asinara, da anni si interessa con passione della Storia della Cayenna d’Italia. Documenti, fotografie, memorie, ma anche - grazie. alla sua specializzazione tecnica cerca di ritrovare le tracce sul terreno degli eventi che si sono succeduti dal 1885 ai primi anni Novanta. Per un secolo la stupenda isola degli asinelli ha ospitato prigionieri di ogni nazionalità e genere: dagli anarchici dell’Ottocento ai boss mafiosi rinchiusi nel supercarcere di Fornelli. Tra il dicembre del 1915 e il luglio del 1916 accolse tra 25 e trentamila prigionieri dell’armata austro-ungarica sconfitta dai serbi sul fronte dei Balcani e consegnati all’Italia durante la ritirata da Nisch a Valona.
Dimenticati. Una pagina quasi sconosciuta e ormai dimenticata. Ma non da Congiatu che con le mappe del tempo e i pochi documenti disponibili tenta faticosamente di ricostruire. E’ un itinerario, da Fornelli a Cala d’Oliva sull’altro capo dell’isola, che tocca i sei campi realizzati per accogliere quella torma di disperati. «Certo, i turisti che arrivano ogni giorno a centinaia non si fermano qui per ascoltare una storia lontana e per loro probabilmente poco interessante.. Ma per noi è importante recuperare ogni tassello di questa vicenda che ha visto l’Italia, appena entrata nella Prima guerra mondiale, compiere uno sforzo gigantesco per salvare la vita a migliaia di soldati che morivano ogni giorno di fame e di colera. Fu una missione umanitaria eccezionale per l’epoca, se si pensa all’impegno bellico che si stava affrontando sul fronte alpino»
Museo. Obiettivo di Congiatu, che trova d’accordo il nuovo direttore del parco Carlo Forteleoni di aprire nei locali restaurati del Palazzo dell’amministrazione un piccolo museo della storia dell’Asinara . «Una sala sarà dedicata interamente a questa tragica vicenda con i reperti che stiamo raccogliendo - dice - lapidi, epigrafi, statue, e sculture fatte dai prigionieri, pochissimi oggetti ritrovati a cui si potranno aggiungere foto, filmati e video per illustrare quegli otto mesi in cui l’isola si trasformò in un’autentica Babele. Arrivarono uomini dell’esercito austro-ungarico provenienti dall’impero asburgico in disfacimento: con austriaci e ungheresi migliaia di croati, boemi, slovacchi, rumeni, russi e bulgari». Non è un caso che l’ingegnere col gusto della storia si occupi di tutto questo. «Sono di Porto Torres - spiega - e sin da bambino restavo affascinato dalle storie che i grandi raccontavano. L’Asinara era una sorta di isola mitica, popolata da animali esotici, pesci rari, dove potevano accadere i fatti più fantastici. E tutti ci credevano. In più mia madre è stata per diversi anni maestra nell’isola e grazie anche a lei ho cominciato ad appassionarmi». Quando si è affacciata l’opportunità di un lavoro nel nascente parco nazionale è stato quasi naturale occuparsi di quei racconti che sentivo da bambino dalle favole alla storia
Il diario. Esiste un raro documento che ricostruisce passo passo con militare pignoleria la tragedia di 90 anni fa. E’ il diario del generale Giuseppe Carmine Ferrari, all’epoca comandante del Presidio dell’Asinara. «Fu lui ad organizzare le operazioni di accoglienza e a tempo di record. Dalle sue pagine. emerge la cronaca quotidiana degli arrivi, dei decessi, delle enormi difficoltà per curare i colerosi, per assistere i moribondi, ma soprattutto per dare vestiti, cibo, coperte e almeno una tenda a quelle. migliaia di disperati che continuavano a sbarcare come un fiume inarrestabile»,dice Congiatu. Per far fronte all’emergenza ci fu una vera mobilitazione: medici e personale sanitario furono inviati da Cagliari e Sassari, ingenti quantità di farina, riso e viveri nonostante la penuria dell’economia. di guerra dai magazzini di Porto Torres. Per vestire quella massa di soldati seminudi e scalzi spedirono berretti, giubbe, scarpe e pezze da piedi, ma anche il necessario per l’accampamento tende, stuoie, coperte, paglia, gavette, forni, attrezzi da lavoro e persino strumenti musicali. Dopo otto mesi i quindicimila superstiti, in gran parte. ristabilitisi saranno imbarcati su tre navi e trasportati a Tolone per essere consegnati all’esercito francese. Nell’agosto del 1916 l’Asinara era di nuovo deserta, i campi con gli ospedali, le tende e le baracche, smontati o abbandonati. Cosa è rimasto oggi?
Fornelli. «Qui a Fornelli - riprende il filo Congiatu - furono subito portati i malati di colera». A mezzo chilometro dal molo dove oggi approdano i traghetti con i turisti, sono ancora in piedi i ruderi del cimitero con al centro una misteriosa cappella. Quando e da chi fu costruita? Nessuno ha saputo dare una spiegazione. Sicuramente dai prigionieri, ma l’architettura lascia stupiti. «Aveva una cupola come una piccola moschea, le finestre sono moresche, ma l’interno con capitelli e muri dipinti sono di stile diverso», dice l’ingegnere: «Nella sagrestia si nota un lastrone di marmo. Non è un altare. ma il tavolo per le necroscopie: si notano i fori per far scolare il sangue». All’interno del recinto sono state trovate centinaia di tombe, le ossa raccolte e portate all’ossario dei caduti costruito negli anni Trenta davanti a Campu Perdu. «Ma ce ne sono tante altre. Anche in riva, dove i cadaveri dei colerosi venivano sepolti nelle fosse comuni. Per anni il mare ha scavato le tombe scoprendo gli scheletri». Il diario del generale Ferrari annota puntigliosamente i morti del giorno: a centinaia in dicembre e gennaio, poi si riducono a 20, 30 a febbraio, ad aprile il colera è sconfitto. Il virus era esploso a bordo delle navi, probabilmente contratto durante la terribile marcia nei Balcani. I primi cadaveri vennero gettati in mare e i malati lasciati a bordo, nel frattempo che a terra si costruivano gli ospedali e le fosse. Poi si isolarono nel campo di Fornelli. Dopo gli arrivi di dicembre, le navi continuarono senza sosta il ponte con l’Albania. I prigionieri giungevano a ondate di migliaia. Nell’isola mancava tutto, ma Ferrari, riuscì ad ottenere il necessario. «Pensate solo all’acqua per dissetare tanta gente» dice l’ingegnere «Furono scavati pozzi e costruiti serbatoi vicino ai moli dove potevano approdare le navi cisterna. I primi cinquemila vennero accolti a Cala Reale dove già esistevano alcune strutture ospedaliere e baracche, poi vennero realizzati i campi a Cala d’Oliva, Stretti, Campu Perdu, a Fornelli per i colerosi e infine a Tumbarino. Ovunque si notano oggi ruderi degli ospedali i forni crematori, i basamenti di pietra su cui erano montate le tende, i cippi funerari ». Il più desolato è il cimitero degli italiani militari e civili morti tra le due guerre, sepolti anche bambini di un anno, croci di legno abbattute, lapidi frantumate, il muro cadente. Il generale tenne una contabilità quotidiana, ma era impossibile conoscere il numero esatto degli sbarcati di quelli che morivano nell’indifferenza degli stessi compagni. Verso febbraio la vita nei campi cominciò a normalizzarsi, i prigionieri curati e sfamati come possibile con gallette, carne in scatola e minestre, poterono lentamente ristabilirsi. Molti cominciarono a lavorare come contadini, artigiani, scalpellini, giardinieri. Tra loro c’erano numerosi artisti che costruirono cappelle, monumenti funebri e statue. In un’iscrizione a Tumbarino si legge ancora: «Grazie all’Italia nostra salvatrice». Quando l’ultimo convoglio si apprestava a salpare verso la Francia, da bordo della nave Seine, i 1200 prigionieri si tolsero i berretti e salutarono gridando più volte «Viva l’Italia ».
L'Asinara. L’epigrafe dedicata al generale Ferrari non si può vedere. Devastata dal tempo e ritrovata in mezzo agli arbusti ora è custodita in un magazzino in attesa di un restauro e di una collocazione. L’avevano scritta i prigionieri austriaci per ringraziare il comandante dell’Asinara poco prima di lasciare l’isola per essere trasferiti in Francia. Nell’inverno del 1916 il paradiso dei turisti di oggi era diventato nel volgere di un paio di settimane, un girone dantesco. Un vero inferno in cui si ritrovarono reclusi per otto mesi trentamila prigionieri dell’esercito austro-ungarico. C’è un documento, praticamente sconosciuto di un ufficiale di Lodi che fu testimone di quella tragedia. Nel racconto lasciato dal capitano di Commissariato Giuseppe Agnelli emerge un quadro ben diverso da quello descritto dal generale Giuseppe Carmine Ferrari. Agnelli fu inviato all’Asinara per contribuire alla missione di soccorso. La sua testimonianza, pubblicata nel 1919 sul giornale socialista l’Avanti! subito dopo la fine della guerra, fu criticata e poi censurata perchè ribaltava l’immagine positiva degli italiani che avevano sconfitto il colera e salvato migliaia di uomini. Agnelli ormai anziano, ci riprovò nel 1961 con un saggio di memorie ritrovato da uno studioso trentino. Il suo racconto è terrificante: i militari italiani furono spietati lo stesso Ferrari diceva «senza reticenze che il bastone era il vocabolario col quale dovevasi discorrere con i prigionieri». Arrivarono qui a ondate da Valona, con un gigantesco ponte navale messo in atto dalla Marina militare italiana. Affamati, ridotti a scheletri, seminudi e scalzi, la maggior parte stremata da ogni genere di malattie. A centinaia colpiti dal colera morivano sulle navi prima ancora di essere sbarcati, gli altri finirono. nel campo-lazzaretto che fu costruito in pochi giorni nell’area di Fornelli, tra la riva e il supercarcere dove sino agli anni Novanta furono rinchiusi i boss mafiosi e i terroristi.
Missione umanitaria. La prima nave, guarda caso si chiamava Dante Alighieri, spuntò davanti alla rada di Cala Reale il 18 dicembre 1915. Nel giro di pochi giorni sbarcò una marea umana sull’isola sino a quel momento praticamente deserta. Secondo il minuzioso diario del generale Carmine Giuseppe Ferrari, che organizzò l’accoglienza, la costruzione di otto campi con tende e ospedali il trasporto di viveri, medicine e di ogni necessità, fu possibile salvare quindicimila di quei 25-30 mila disperati. A leggere le pagine della sua relazione fu un’impresa umanitaria eccezionale per quei tempi, che sarebbe stata difficile realizzare anche oggi. A testimonianza i ringraziamenti dei superstiti poco prima di partire per la Francia e alcuni monumenti lasciati nell’Asinara.
Monumenti. A Campu Perdu c’era una statua celebrativa scolpita dal prigioniero ungherese Georg Vemess, un’autentica opera d’arte. Spuntava tra la macchia mediterranea sino a una decina di anni fa poi nel passaggio dall’amministrazione penitenziaria all’Ente parco sembra scomparsa. Rappresentava (si vede in una vecchia foto) un eroe e nel basamento una folla di uomini nudi e disperati. «Questa statua era intitolata “Il lungo viaggio”» racconta il professor Laszlo Lorinczi, ungherese studioso da tempo trapiantato in Sardegna: «Da, un lato l'artista voleva rivelare al mondo le atroci sofferenze che i suoi connazionali avevano subito durante la terribile marcia nei Balcani, dall’altra il trionfo della speranza, della solidarietà dei popoli e della vita. Insomma, un ringraziamento agli italiani che avevano salvato e curato i sopravvissuti dei 70 mila che avevano marciato per due mesi da Nisch a Valona». L’anziano professore ha un sogno: «Non so che fine abbia fatto quella statua, ma vorrei che venisse realizzato un nuovo monumento a forma di stele con i simboli della nostra nazione per ricordare gli otto, novemila ungheresi morti all’Asinara».
I campi. La strada di cemento che da Fornelli porta a Cala Reale si snoda tra un paesaggio da sogno nel parco nazionale. Novant’anni fa per otto mesi l’Asinara si ritrovò sommersa da questi trentamila prigionieri (impossibile stabilire la cifra esatta). Sulla collina di Stretti, dove furono sistemati due campi, cresce ancora la cipolla canina. E’ una sorta di peyote sardo: dicono che in piccole dosi dia euforia, ma basta mangiarne un paio per morire tra atroci dolori. «Quei poveretti, vinti dalla fame, cercavano ogni cosa commestibile: molti, che avevano raccolto le cipolle velenose, morirono su questa collina» ricorda Pierpaolo Congiatu, studioso delle storia dell’Asinara. Congiatu mostra i ruderi di Tumbarino: si notano bene i circoli di pietra su cui venivano montate le tende, i muri dove c’era l’ospedale, il molo dove approdavano i barconi e vicino alla riva anche il serbatoio per raccogliere l’acqua che veniva scaricata dalle navi-cisterna (nell’isola non c’erano pozzi e l’approvvigionamento era uno dei problemi prioritari). Qui a Tumbarino negli anni del supercarcere isolavano i pedofili e i detenuti pericolosi. Da lontano nel silenzio si sentivano le loro urla. I prigionieri austriaci, superata l’emergenza colera, vestiti e alimentati come possibile, dal marzo in poi cominciarono a ristabilirsi. Molti lavoravano nei campi e con il bestiame, altri facevano gli operai e gli artigiani, a centinaia furono inviati in Sardegna per occupare i vuoti lasciati dagli uomini partiti per il fronte. Tracce del loro passaggio a Ussana, lglesias, Sinnai, nelle miniere di Montevecchio e del Sulcis.
Artisti. In quella Babele di lingue e culture c’erano numerosi musicisti e artisti. Hanno costruito cimiteri, cappelle, monumenti funebri. A Tumbarino, girando tra i ruderi dell’ex campo, si scopre il basamento scolpito con un impressionante bassorilievo. La statua è scomparsa, anche questa, ma la scultura mostra le figurine di quei disperati. Ma chi erano i prigionieri?
Cannibalismo. Racconta il capitano Agnelli: «Rappresentavano l’avanzo di ben 70 mila uomini dell’esercito austro-ungarico che nel 1914, all’inizio della guerra contro la Serbia, erano stati catturati. Nell’autunno del 1915 in seguito all’offensiva del formidabile esercito tedesco, i serbi furono costretti alla ritirata trascinandosi dietro la massa dei prigionieri austriaci. Fu una vera odissea a piedi tra i monti innevati dei Balcani. Per settanta giorni vagarono senza un piano preciso, morendo a migliaia di stenti e percosse». «Ci furono persino casi di cannibalismo», racconta in una lettera uno dei superstiti. «Siffatto era il terrore che dominava la famelica turba fuggente e così forte era l'istinto di sopravvivenza che neppure amici e parenti si fermavano a soccorrere chi si lasciava andare sfinito. Si nutrirono di erbacce, topi, ogni qualità di rettili abbruciacchiati e divorati con voracità felina» scrisse con il linguaggio dell’epoca il capitano Agnelli raccogliendo - sostiene -le testimonianze dei sopravvissuti.
Colera. In gran parte in preda alla dissenteria e ridotti a pelle e ossa arrivarono a Valona in trentamila. Nel porto albanese scoppiò il colera. I prigionieri dovevano essere consegnati alla Francia, ma la notizia dell’epidemia consigliò i governi alleati di frenare il contagio chiedendo aiuto all’Italia. Così si decise di trasportarli all’Asinara considerata il Lazzaretto del Mediterraneo. Durante il tragitto in nave continuavano a morire tra atroci dolori. I cadaveri venivano gettati a centinaia in mare, qualcuno fu rinvenuto sulla costa di Alghero o finì nelle reti dei pescatori sardi. L’Asinara era praticamente deserta e mancava di tutto. Agnelli ricorderà per tutta la vita il maestrale che soffiava senza tregua impedendo alle navi di portare viveri e soccorsi. In queste condizioni per la completa assenza di cure, anche rudimentali le vittime furono centinaia al giorno «Sì che, non appena furono assestati in maniera soddisfacente i campi» sottolinea il capitano «i prigionieri si erano ridotti a ventimila» I cadaveri venivano sepolti nelle fosse comuni e accatastati vicino alla spiaggia in attesa dell’inumazione. Unico cibo gallette e scatole di carne, solo dopo un mese si vide la carne fresca e il brodo, il pane, che si preparava a Porto Torres, quando c’era maestrale finiva ad ammuffire nei magazzini. I medici italiani lasciarono ai loro colleghi austriaci il compito di assistere i colerosi,mancavano le medicine per le cure usavano limoni e aranci. Ai Fornelli non si faceva in tempo a scavare le fosse comuni. I prigionieri si impossessavano dei vestiti dei morti e preferivano tenersi vicini per giorni i cadaveri pur di prendere la loro razioni. «Non c’era niente, in compenso abbondava il bastone. I carabinieri sorvegliavano coi randello in mano e a ogni minima infrazione alla disciplina erano legnate sulla testa e sulle spalle». Agnelli vide «infinite scene di bestiale violenza e ufficialetti troppo ligi che per dimostrare la loro energia facevano legare al palo i disgraziati colpevoli di voler saziare la loro fame». Solo il ritrovamento di altri documenti e futuri studi potranno stabilire come andarono gli eventi. Oggi restano i ruderi di una storia dimenticata.
Da L'Unione Sarda 11 Agosto 2006